Il “faccio le valigie e me ne vado” può esser frutto di entusiasmo o di rabbia (un amore finito da cui fuggire o uno nuovo da rincorrere), di delusione o di noia (necessitá vitali e professionali non soddisfatte nel proprio paese) o di curiosità (voler mettersi alla prova in un altro contesto).Emigrare è comunque una ricerca, ma anche una rinuncia e, quando ce ne accorgiamo, iniziamo a danzare in un’altalena di stati d’animo che spesso ci disorientano.
Emigrare si trasforma quindi non solo in un’esperienza ma anche in un processo.
Per capire meglio le fasi di questo processo partiamo dal concetto stesso di Emigrante.
Emigrante: colui che va via dalla propria patria.
Patria: la terra dei Padri.
Padre: Colui che protegge, nutre, , mantiene e sostiene la famiglia.
Non c’è da stupirsi quindi se, dopo una prima fase di euforia dovuto ad uno slancio di indipendenza o novità ci si trovi di fronte a quello che Oberg definì shock culturale.
Tale shock e' causato infatti dalla "ansia che deriva dalla perdita di tutti i nostri segni familiari e simboli dei rapporti sociali”.

Da ciò non dobbiamo in nessun modo dedurre che andare a vivere all’estero debba necessariamente tradursi in un’esperienza traumatica! È interessante, in tal senso, conoscere quali sono le fasi che attraverseremo, prima di arrivare a sentirci integrati in una nuova realtà.
Oberg descrive 5 fasi:
1º: Eccitazione. I primi mesi di vita all'estero sono per cosi' dire un periodo di luna di miele in cui tutto è nuovo, emozionante ed affascinante. Ci lasciamo coinvolgere da tutti gli stimoli nuovi che ci circondano e ne siamo entusiasti e soddisfatti: abbiamo fatto la scelta giusta andando a vivere all'estero!
2º: Rifiuto. Tutto l’entusiasmo dell’inizio poco a poco si affievolisce cosi’ come le nuove eccitanti ed affascinanti esperienze. Si torna con i piedi per terra e si inizia a dover affrontare le piccole e grandi difficoltà della routine quotidiana.
Improvvisamente si inizia a scoprire che il modo di fare le cose in quel luogo (costumi sociali, professionalmente, orari, ecc.) possono differire, a volte molto, dal proprio. Il tempo libero è frustrante, perché ogni svago deve essere svolto usando un'altra lingua. Non ci sono i luoghi affezionati dove andarsi a distrarre, inizi a provare un senso di noia nello spendere giornate con persone che non puoi capire del tutto o dalle quali non puoi farti comprendere del tutto.
Anche la nostra identità si vede compromessa. Ad esempio i primi tempi ci sarà difficile incluso fare delle battute, sia perchè linguisticamente non dominiamo la nuova lingua sia perchè il senso dell’umorismo in quel luogo può essere molto diverso.
Iniziano cosi' ad aumentare le difficoltà nell'adattamento, convincendosi che nessuno e' d'aiuto nel superare questo tipo di stress. Addirittura ci si convince sempre più che le persone non siano in grado di capire questo malessere, o che ne siano in alcun modo interessate.
Questo a sua volta innesca una certa ostilità al nuovo ambiente. Si comincia cosi' ad odiare il paese ospitante e tutto ciò che ad esso è collegato.

Alcuni sintomi del fallimento di integrazione e accettazione del nuovo ambiente?
• il rifiuto di continuare ad imparare la lingua locale,
• di fare amicizia con la gente del posto,
• di fare qualsiasi attività che possa portare maggiore interesse verso la cultura locale
• rinunciare ad un lavoro qualificato se questo richiede uno “sforzo in più” (adattarsi ai modi di lavorare e rapportarsi di un paese, approfondire la nuova lingua, ecc.)
Seguendo questo percorso, l'individuo tende a crearsi inconsapevolmente delle trappole. Un esempio lo si rintraccia facilmente nell’atteggiamento nei confornti del “nuovo” mondo del lavoro: per il lavoro corrispondente alla mia formazione ed esperienza è necessario dominare abbastanza bene la nuova lingua... mi rifiuto di mettermi a studiare dopo tutto quello che ho già studiato!; mi tratteranno come se fossi appena sbarcato nel mondo del lavoro, quando io ho diversi anni alle spalle... piuttosto vado a lavorare in un call-center!
Un’altra trappola che ci si tende è l’auto-isolamento, facendo crescere dentro si sè il senso di antagonismo nei confronti della gente del luogo. Si andrà alla ricerca di simili, che nutrono le stesse sensazioni per poter attaccare la cultura locale, senza rendersi conte che il problema potrebbe risiedere da un'altra parte.
Con il passare del tempo, si e’ sempre più di fronte ad un bivio: scegliere di restare o ritornare in patria?
Dubbio questo, che si accentua ancor di più in quei casi, molto frequenti, in cui l'"emigrante" ha seguito il cuore, ovvero si è trasferito per stare accanto all'amore della sua vita. Ma come in molte favole, non sempre la storia finisce bene e ci si trova a dover elaborare un lutto, prima, e cercare un nuovo senso alla nostra permanenza all'estero poi.
4º: Accettazione. Se si supera la fase 3, e quindi si sceglie di restare, la strada per il superamento dello shock culturale tende ad essere in genere più agevole.

Ci sono diversi modi di vivere la proprio vita e nessun modo è davvero meglio di un altro. E' solo diversa da come la si viveva prima.
5º: Rientro. Quando il periodo all’estero sta per concludersi, si inizia a pensare come sarà bello ritornare in un ambiente familiare, nuovamente tra amici e parenti e tutte le attività che si amavano fare.
Bisogna pero' sottolineare il fatto che i primi tempi si era costretti a vivere in un posto a proprio dire inospitale, che poi lentamente si e’ iniziato ad amare, probabilmente affrontando le proprie convinzioni di lunga data e di atteggiamenti che gradualmente sono stati via via sostituiti a dei nuovi valori e ideali.
Proprio per quello che si e' appresso durante tutto quel periodo di assenza, le nuove abitudini, il nuovo stile di vita, l'aver accettato la nuova versione di se in un paese straniero, porta nuovamente a delle difficoltà nel far ritorno alla vecchia casa. Ci vorrà un po' per riprendersi con la cultura di origine, ed e’ bene concedersi un po’ di tempo per riadeguarsi nuovamente al vecchio ambiente, prima di ritornare alla vita di sempre.
Ma questa volta sarà possibile ridurre al minimo lo shock del rientro, solo se si avrà coscienza delle proprie reazioni e, soprattutto, prendendo le cose con un atteggiamento più positivo.
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