Boom. Troppo connessi e informati, non riusciamo più a lavorare?
Sempre più informazione e comunicazione, ovunque siamo, non è sempre un vantaggio, soprattutto quando dobbiamo fare qualcosa. Se grazie alla rete e ai dispositivi mobili non dobbiamo rimanere ostaggi del nostro ufficio per lavorare, è anche vero che proprio questa iperconnessione produce un sovraccarico informativo e una frammentazione che paradossalmente può impedirci di lavorare – e, magari, anche di vivere.
La questione dell’information overload sta diventando un serio problema produttivo per molti. Atos, ad esempio, ha deciso di eliminare le email interne dopo aver scoperto che ogni dipendente spendeva 20 ore ogni settimana per leggerle – e solo il 10% di esse erano realmente importanti.
Ora la rivista inglese Legalweek pubblica i risultati di un sondaggio secondo cui i soci di studi legali farebbero sempre più fatica a gestire il sovraccarico informativo dei media digitali. Quasi il 90% degli intervistati lo ritiene “una sfida” e il 53% ritiene che sia molto difficile da vincere. Il 34% afferma che ciò danneggi la produttività dei partner e il 59% che il ‘multitasking’ e la gestione di molteplici richieste aumenti il livello di stress, mentre il 41% afferma che per questi motivi è sempre più difficile delegare al personale più giovane.

Questo ingorgo affoga le informazioni realmente rilevanti, che spesso sono perse all’interno degli stessi messaggi, nascoste nell’ultimo capoverso o dilaniate nel corpo del testo.
Tutto ciò dovrebbe indurci ad alcune riflessioni. Si è parlato molto delle potenzialità dei media digitali, che accelerano la quantità, ma non necessariamente la qualità della comunicazione, perché quest’ultima dipende non tanto dal mezzo quanto da chi lo utilizza e dalla sua consapevolezza di ciò che fa. E qui mi viene spontaneo un paragone, che potrà sembrare cruento, ma lo ritengo efficace.
Secondo Konrad Lorenz, l’uomo perse del tutto le naturali inibizioni all’omicidio quando inventò ordigni capaci di uccidere a distanza: premi un bottone qui, e in qualche luogo, a volte non sai nemmeno dove, qualcuno muore. Eccolo, l’altro lato della tecnologia:più un’azione diventa comoda e a distanza, più tendiamo a perdere cognizione delle conseguenze, a perdere di vista il nesso causale tra un gesto così semplice e l’effetto che può generare.

Tutto ciò, sinceramente, è poco umano.
Qual è la soluzione? Da anni mi occupo di queste problematiche, con Giovanni Acerboni, e di metodologie per valorizzare le informazioni rilevanti in funzione del destinatario, una sorta di ecologia della comunicazione che ha prodotto ottimi risultati. Ma sarebbe necessario un cambio di mentalità, orientando la visione della tecnologia in funzione delle reali esigenze umane, invece di considerare l’uomo come appendice del social network o dei nuovi occhialini di Google.
Perché internet non è il monolite di Odissea nello spazio, non è in grado da sola di instillare l’intelligenza negli ominidi.
Più informazioni ho a disposizione, più ho capacità di compiere delle scelte consapevoli? In teoria, una teoria da laboratorio, questo può funzionare. Nella pratica, dove le variabili sono infinite, l’informazione a pioggia, senza intelligenza, produce la paralisi.
Fonte (www.farsileggere.it , articolo di Francesco Vignotto)
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