sábado, 28 de abril de 2012

L'IPERCONNESSIONE CI IMPEDISCE DI LAVORARE BENE


Boom. Troppo connessi e informati, non riusciamo più a lavorare?

Sempre più informazione e comunicazione, ovunque siamo, non è sempre un vantaggio, soprattutto quando dobbiamo fare qualcosa. Se grazie alla rete e ai dispositivi mobili non dobbiamo rimanere ostaggi del nostro ufficio per lavorare, è anche vero che proprio questa iperconnessione produce un sovraccarico informativo e una frammentazione che paradossalmente può impedirci di lavorare – e, magari, anche di vivere.

La questione dell’information overload sta diventando un serio problema produttivo per molti. Atos, ad esempio,  ha deciso di eliminare le email interne dopo aver scoperto che ogni dipendente spendeva 20 ore ogni settimana per leggerle – e solo il 10% di esse erano realmente importanti.
Ora la rivista inglese Legalweek pubblica i risultati di un sondaggio secondo cui i soci di studi legali farebbero sempre più fatica a gestire il sovraccarico informativo dei media digitali. Quasi il 90% degli intervistati lo ritiene “una sfida” e il 53% ritiene che sia molto difficile da vincere. Il 34% afferma che ciò danneggi la produttività dei partner e il 59% che il ‘multitasking’ e la gestione di molteplici richieste aumenti il livello di stress, mentre il 41% afferma che per questi motivi è sempre più difficile delegare al personale più giovane.
L’indagine di Legalweek illustra il problema molto chiaramente. Da un lato ci sono i clienti, che hanno a loro disposizione molti più canali per entrare in contatto direttamente gli avvocati e, data l’immediatezza di email, chat e social network, pretendono risposte altrettanto immediate. Dall’altro gli stessi colleghi, che secondo molti intervistati sarebbero una minaccia ancora più pericolosa per la tendenza a utilizzare indiscriminatamente l’email: “Internamente, l’informazione scorre per sua natura verso l’alto,” dichiara Ian Gray dello studio legale Eversheads “perché la gente ti include nei destinatari delle email per ogni sorta di ragione. Le aziende fanno di tutto perché le informazioni importanti non rimangano sommerse, ma mi ritrovo spesso a dover respingere email inutili e a tentare di limitare i dati che ricevo.
Questo ingorgo affoga le informazioni realmente rilevanti, che spesso sono perse all’interno degli stessi messaggi, nascoste nell’ultimo capoverso o dilaniate nel corpo del testo.
Tutto ciò dovrebbe indurci ad alcune riflessioni. Si è parlato molto delle potenzialità dei media digitali, che accelerano la quantità, ma non necessariamente la qualità della comunicazione, perché quest’ultima dipende non tanto dal mezzo quanto da chi lo utilizza e dalla sua consapevolezza di ciò che fa. E qui mi viene spontaneo un paragone, che potrà sembrare cruento, ma lo ritengo efficace.
Secondo Konrad Lorenz, l’uomo perse del tutto le naturali inibizioni all’omicidio quando inventò ordigni capaci di uccidere a distanza: premi un bottone qui, e in qualche luogo, a volte non sai nemmeno dove, qualcuno muore. Eccolo, l’altro lato della tecnologia:più un’azione diventa comoda e a distanza, più tendiamo a perdere cognizione delle conseguenze, a perdere di vista il nesso causale tra un gesto così semplice e l’effetto che può generare.
Così, comunicare è diventato talmente facile e immediato da indurci a farlo a sproposito e compulsivamente sugli argomenti più disparati e spesso triviali (vedi alla voce Twitter) e anche quando dobbiamo trasferire informazioni importanti omettiamo di riflettere sulle reali esigenze di chi sta dall’altro capo. Ad esempio, che non saremo i soli, nello stesso momento, a bombardarlo con le nostre informazioni e le nostre richieste.
Tutto ciò, sinceramente, è poco umano.
Qual è la soluzione? Da anni mi occupo di queste problematiche, con Giovanni Acerboni, e di metodologie pevalorizzare le informazioni rilevanti in funzione del destinatario, una sorta di ecologia della comunicazione che ha prodotto ottimi risultati. Ma sarebbe necessario un cambio di mentalità, orientando la visione della tecnologia in funzione delle reali esigenze umane, invece di considerare l’uomo come appendice del social network o dei nuovi occhialini di Google.
Perché internet non è il monolite di Odissea nello spazio, non è in grado da sola di instillare l’intelligenza negli ominidi.
Più informazioni ho a disposizione, più ho capacità di compiere delle scelte consapevoli? In teoria, una teoria da laboratorio, questo può funzionare. Nella pratica, dove le variabili sono infinite, l’informazione a pioggia, senza intelligenza, produce la paralisi.
Fonte (www.farsileggere.it , articolo di Francesco Vignotto)

Educare i figli: un compito importante



domingo, 22 de abril de 2012

Grupo Terapeutico Depresión Postparto



GRUPO TERAPEUTICO 
            DEPRESION POSTPARTO


Terapeuta Sonja Sampaolesi

APP Atención Psicológica y Psicoterapéutica



 
El embarazo, el parto y el postparto son periodos muy especiales para la mujer, que suelen caracterizarse por cierta vulnerabilidad. Es totalmente normal que la recién mamá se sienta desbordada al tener que enfrentarse a toda una serie de cambios, tanto a nivel físico, como emocional y social. 
Cuando todas estas novedades suponen para la mujer un estado de sufrimiento que conlleva problemas personales, de pareja o familiares estamos ante una condición patológica denominada Depresión Postparto.
Ésta se puede presentar de forma más o menos grave. Con la ayuda de un tratamiento terapéutico puede ser una condición transitoria, de lo contrario podría convertirse en un estado de malestar crónico.  




La TERAPIA DE GRUPO permite a las mamás:
  • Reducir el aislamiento
  • Recibir información sobre la depresión postparto y el postparto en general (psicoeducación)
  • Sentirse comprendida y valorada
  • Centrar la atención en sí misma y en sus necesidades básicas
  • Tener más esperanzas en el futuro
  • Intercambiar recursos para enfrentarse a esta situación



Grupo abierto, mínimo 5 personas.
Sesiones semanales de 1 hora y 1/2.
Precio: 120€/mes (4 sesiones)

Para más información y reserva de plaza, contactar  con Sonja Sampaolesi  T/608. 236. 042 info@serviciosapp.com c/Bertrán, 2 08023 Barcelona www.serviciosapp.com






jueves, 19 de abril de 2012

Lutto normale e lutto complicato: come distinguerli?



Il lutto è un processo in parte naturale, come la morte stessa, e in parte è il frutto di una necessità evolutiva che ci “obbliga” ad interrompere i vincoli di attaccamento con le persone importanti per noi.

La perdita di un relazione basata su uno stretto vincolo affettivo,  rappresenta una sfida molto dura per  il nostro adattamento come esseri umani. Generalmente, la nostra risposta a questa separazione definitiva è rappresentata da un insieme di reazioni  definite stress da separazione: pianto, certo disordine comportamentale, mancanza della persona cara, inquietudine, insonnia, l’inappetenza, tensione muscolare, in alcuni casi incluso  mancanza di respirazione, tachicardia, disturbi digestivi, etc.

Anche se questi sintomi mettono a dura prova il nostro equilibrio, nonchè il nostro benessere, ciò che rende complicata l’elaborazione di un lutto è che gli esseri umani tendono a cercare un significato nel fenomeno della  morte. Quest’ultima infatti diventa, non solo un fatto puramente biologico al quale ci dobbiamo sottomettere, ma anche un catalizzatore per la costruzione di nuovi sognificati.
L’essere umano ha la tendenza ad organizzare le proprie esperienze in modo “narrativo”, ovvero ci costruiamo spiegazioni che possano dare un senso alle transizioni problematiche della nostra vita. Nel caso di un lutto, cerchiamo di darci una spiegazione a questa perdita che possa essere coerente con il nostro sistema di credenze e che possa mantenere un senso di continuità con la persona scomparsa. Però la morte mette a dura prova la nostra capacità di costruire una narrativa coerente.

 Senza dubbio, il lavoro più difficle è quello di acquisire una nuova visione della nostra vista che integri la perdita della persona cara con la realtà di un mondo che ormai per noi sarà diverso, poichè tutto il nostro mondo di significati verrà messo alla prova da questa perdita. Inizierà quindi un processo, in alcuni casi lungo e doloroso, che concluderà con la conferma o la distruzione e ricostruzione dei nostri schemi mentali.

Questi schemi mentali non si riferiscono solo al nostro modo di intendere il mondo, la vita e le relazioni, ma include anche l’idea che abbiamo di noi stessi. La perdita di una persona cara, suppone non solo la mancanza di un affetto, ma anche di un “testimone” intimo del nostro passato (partner, genitori, fratelli, nonni, amici), il che può arrivare a minare fortemente la nostra auto-definizione. La stessa cosa accade in quei casi in cui si perde un figlio, ovvero un “testimone del nostro futuro”. La percezione è che oltre alla perdita di un affetto c’è la perdita di un ruolo.  Ci troviamo di colpo a dover occupare un luogo nuovo nel mondo, con un senso nuovo.


Ulteriori complicazioni si hanno nei casi di morti traumatiche che alterano “l’ordine naturale” (morte di bambini, giovani, suicidi, omicidi). A rendere ancora più difficoltoso il ri-adattamento del sopravvivente sono i ricordi associati all’episodio della morte, che assumono la forma di immagini, sensazioni ed emozioni dissociate e frammentarie. Il risultato è una certa suscettibilità  a ricordi intrusivi alternati all’evitazione degli stessi, che possono perdurare incluso per anni e che facciamo fatica ad integrare nella narrativa coscente della  nostra vita. È inoltre possibile che quest’esperienza traumatica distrugga permanentemente il nostro senso di sicurezza, predizione, fiducia e ottimismo.

Un LUTTO NORMALE è un processo che generalmente passa per tre fasi:
  1. Evitazione: come reazione alla difficoltà di assimilare l’idea della perdita di un essere caro. Si manifesta sotto sintomi quali dolore fisico, senso di torpore o stordimento, sensazione di dissociazione rispetto sl contesto, ecc.
  2. Accettazione: appare in modo graduale, a distanza di giorni dalla morte, quando la persona non è più così sconvolta e inizia a rendersi conto che d’ora in avanti dovrà vivere senza la presenza della persona cara.  Soprattutto all’inizio, questa costatazione può convivere con momenti di negazione in cui ci si “dimentica” che quella persona non è più viva.  È in questi casi che ci par di vedere il nostro caro in giro per strada o, se suona il telefono, pensiamo sia lui/lei.   In questa fase possono apparire emozioni come la tristezza (con un vero e proprio quadro depressivo); la colpa (per ciò che avremmo potuto fare mentre era in vita, per cose sbagliate che abbiamo fatto, per ciò che avremmo potuto fare per salvarlo); la rabbia (verso chi ha provocato la morte, che per alcuni sarà Dio, la natura, i medici, ecc.); fino ad arrivare a un vero e proprio senso di ingiustizia (nei casi di morti violente o per negligenze).
  3.  Accomodamento: man mano che la persona riconquista il suo equilibrio e si rapporta meglio con le sue emozioni, inizia a vedere le cose da un altro punto di vista.  In questa fase l’individuo cerca di affrontare i cambiamenti che comporta il suo nuovo sistema di credenze.

La durata di ognuna di queste fasi, così come quella del processo del lutto complessivamente è molto personale. Ognuno di noi può impiegarci più o meno tempo e, anche se spesso la società sembra non accettare tempi troppo lunghi, dobbiamo concederci tutto lo spazio  necessario per elaborare una perdita.
Nonostante ciò è importante poter distinguere un Lutto Normale da uno Complicato, poichè nel secondo caso (con maggior urgenza che nel primo) si richiede l’intervento di un terapeuta per aiutare ed accompagnare la persona in questo difficile cammino, affinchè non scaturisca in uno stato di malessere cronico.

LUTTO COMPLICATO

Nei casi di lutto complicato la persona sente che la vita senza il defunto è talmente compromessa che non riesce ad integrare ed elaborare la perdita ed andare avanti. In questi casi, la morte di un essere caro non solo è profondamente triste  ma arriva anche a perturbare il senso di chi si è, dei nostri progetti e dei nostri rapporti con il mondo.







Come riconoscerlo?   

  • Pensieri intrusivi sul defunto    
  • Mancanza della persona cara                                       Per almeno 6 mesi
  • Ricerca del defunto
  • Solitudine eccessiva dalla morte

  • Mancanza di obiettivi, senso d’inutilità rispetto al futuro
  • Senso di distacco o assenza di reazioni emotive
  • Difficoltà nel riconoscere la morte (incredulità)
  • Sensazione che la vita è priva di senso
  • Sensazione che sia morta una parte di noi
  • Visione disfattista del mondo (perdita del senso di controllo, fiducia e sicurezza)
  • Assumere i sintomi o le condotte distruttive del defunto
  • Eccessiva irritabilità, amarezza o angoscia relative alla morte 


In generale, la mancanza di un sostegno nei casi in cui la persona lo necessiti, può causare problemi significativi nelle aree sociali, professionali  e altre aree importanti del funzionamento dell'individuo. Per tali ragione è importante chiedere aiuto e farci guidare in un momento così difficile nella nostra vita, nel quale non abbiamo a disposizione tutte le risorse che potevamo utilizzare prima per affrontare le difficoltà. L’aiuto ci può arrivare dalla nostra rete sociale (familiari, amici, comunità) o figure professionali quali lo psicologo il quale potrà accompagnarci in un processo terapeutico lavorando insieme sull'elaborazione del lutto.


(Articolo di Sonja Sampaolesi)

martes, 17 de abril de 2012

Baby Blues (o Maternity Blues) e la Depressione Post parto: quando è necessario intervenire?


La gravidanza, il parto e il post parto sono periodi molto speciali per la donna, caratterizzati in generale da una maggiore vulnerabilità. È quindi assolutamente normale che la neomamma venga stravolta da tutta una serie di cambiamenti fisici, emotivi e sociali. Quando tutti questi stravolgimenti comportano uno stato di sofferenza tale da scaturire in problemi personali, di coppia o familiari ci troviamo di fronte ad una condizione patologica che può essere più o meno grave. Per sapere cosa fare quando si sperimenta uno stato di sofferenza dopo la nascita di un bebè è innanzitutto necessario fare un’accurata diagnosi. È fondamentale distinguere quella che viene denominata Baby Blues dalla Depressione Post parto. A tal fine, spiegherò brevemente le differenze che sono centrali per riconoscerle: i sintomi, le cause, l’insorgenza e la durata. Queste informazioni saranno utili per sapere se è necessario prendere dei provvedimenti e quali.


BABY BLUES è una condizione di disagio interiore che sperimenta la neomamma.
Come riconoscerla?È caraterizzata da una forte tendenza ad avere un umore instabile con grande facilità al pianto, difficoltà o incapacità dil concentrazione, tristezza, sensazione di incapacità generalizzata e ansia.
Cosa può averla provocata?Spesso è il frutto dello stress psico-fisico causato dal travaglio e/o dal puerperio (deprivazione di sonno e  sconvolgimento ormonale), nuove responsabilità vissute con ansia, inesperienza, imprevisti o conflitti familiari.
Quanto dura?
Generalmente la sua insorgenza si verifica nella 1° settimana dopo il parto e si protrae mediamente per circa 10 - 15 giorni.

Cosa fare?
Nonostante sia molto frequente (50-85%), non richiede nessun tipo di intervento terapeutico, poichè è un disturbo transitorio di breve durata. È sufficiente essere informate sulla natura del disturbo e attendere che passi.
La DEPRESSIONE POST PARTO invece presenta un quadro più serio: ne soffre circa una mamma su otto e si tratta di una patologia vera e propria che se non trattata può trasformarsi in una condizione cronica.

Come riconoscerla? C’è da tener presente che sintomi come l’alterazione del sonno e dell’appetito, la diminuzione della libido, lo stato di fatica e le alterazioni dell’umore sono da considerarsi normali nel postparto. È per questo che è necessario centrarsi in altri sintomi, alcuni dei quali condivide con la depressione tipica,  così come la si conosce comunemente, ma con delle particolarità che la differenziano: instabilità emotiva; irritabilità; stato d’animo costantemente negativo; eccessiva preoccupazione o ansia; perdita della capacità di concentrarsi nel presente e di godersi il momento; dolori e debolezza muscolare; sensazione di fastidio nei confronti del bambino, sentirlo come un peso; mancanza di emozioni nei confronti del bambino; preoccupazione ossessiva per la salute del bebè; sensazione di inadeguatezza nella cura del bambino; ritenersi madre e moglie incapace; avversione nei confronti del prorpio compagno; mancanza di concentrazione nelle cose quotidiane che vanno dalle semplici cure all’interazione con il bambino.
In alcuni casi, si presenta anche un disturbo ossessivo compulsivo postparto che si traduce in sentimenti di odio nei confronti  del bambino, lo si considera la causa del proprio male, avversione verso il bebè e paura di restare sola con lui per paura di fargli del male (non accidentalmente). Molte mamme, ad esempio, arrivano a non voler stare in cucina con il proprio bebè per il timore di prendere un coltello e aggredirlo. Per paure simili siarriva anche ad evitare di fargli il bagno (affogarlo) o tenerlo in braccio (lasciarlo cadere o soffocare). Queste mamme sperimentano questi pensieri intrusivi con un’angoscia terribile e tendono a non parlarne con nessuno per paura di esser giudicate delle “cattive mamme”. In queste situazioni si parla infatti di depressione sorridente per descrivere l’apparenza normale di alcune madri depresse che, nonostante stiano sperimentando un forte stato di sofferenza interna, si mostrano soddisfatte parlando con altra gente.

Insorgenza e durata. La depressione post parto si affaccia solitamente durante la 3° o 4° settimana dopo il parto e arriva ad evidenziarsi come problema effettivo dopo il 3º mese, potendo prolungarsi fino a oltre un anno. In alcuni casi, se non si interviene precocemente può diventare cronica.

Cause. Nonostante le cause siano sempre dovute ad un insieme complesso di variabili, sono comunque coinvolti i fattori ormonali (di tipo sessuale e tiroideo), i fattori fisici (complicazioni ostetriche, stanchezza causata dai ritmi imposti dal bambino), i fattori psicologici (una personalità con bassa autostima o perfezionista, gravidanza non desiderata), i fattori sociali (giovane età, inesperienza e mancanza di aiuto e sostegno, problematiche familiari), i fattori cognitivi (coltivare aspettative irrealistiche sull’essere madre o sul bambino). Si è inoltre riscontrato che l’avere un bebè irritabile può essere un fattore scatenante.

Conseguenze. La mamma depressa non ha nè voglia nè energia per avere una relazione affettiva nè con il proprio bambino nè con altri. Si sente isolata e incompresa, ma allo stesso tempo non si sente a suo agio esprimendo la propria sofferenza e parlandone con gli altri, fattore che non fa altro che retroalimentare il suo senso di isolamento.Può  trascorrere la maggior parte del giorno con preoccupazioni ossessive, senso di insuccesso, incompetenza e incluso pensieri relativi alla morte (propria o del suo bebè).
Il rapporto con il proprio partner si vede gravemente compromessa. Anche se ci sarebbe da verificare se le problematiche di coppia, che insorgono in una depressione postparto, sono la causa o la conseguenza del disturbo depresivo. Molti studi hanno rilevato che spesso i mariti di mamme depresse descrivevano la perdita del rapporto con la propria donna ancor prima dell’episodio depressivo. Questi uomini riferivano una sensazione soggettiva che la propria compagna si fosse trasformata in una persona totalmente diversa da quella che conoscevano. I mariti percepivano questa situazione con “un incubo” e cercavano, con insuccesso, di aiutare le proprie donne.  Inoltre parlavano del timore di reazioni imprevedibili da parte delle neomamme  e un forte senso di sottovalutazione da parte loro, come se fossero una presenza inutile.
La depressione postparto può avere una significativa incidenza nello sviluppo emotivo e cognitivo del bambino. Le mamme depresse di solito interagiscono meno con i propri bebè,  la comunicazioine è scarsa e alterata il che fa sì che il bimbo riceva meno stimoli e ostacola il vincolo che si dovrebbe creare fra madre e figlio. Se il papà partecipa attivamente nelle cure del bimbo, l’impatto della depressione materna sul lattante sarà minore.

Cosa fare?La depressione postparto è una patologia grave che richiede un trattamento urgente. Se non si interviene prontamente, la durata media può essere dai 7 mesi a oltre 1 anno, fino alla possibilità di convertirsi in cronica.
È quindi di fondamentale importanza appellarsi a tutte le risorse sociali e professionali che si abbiano a portata di mano: coniuge, famiglia, amicizie, medici, psicologi.

Possibilità terapeutiche

La Psicoeducazione fa sempre parte del trattamento. Consiste nello spiegare alla neomamma e, quando è possibile, anche al neopapà tutte le caratteristiche della depressione postparto, affinchè la mamma non si senta in colpa, ma piuttosto in diritto di richiedere aiuto e appoggio professionale al suo terapeuta e personale al suo coniuge.  Non è inoltre da trascurare la funzione fondamentale che svolge il ricevere appoggio nelle faccende domestiche e nelle cure del bambino, o che un familiare possa portare a spasso il bebè mentre la mamma si concede una pausa di relax o di sfogo, se necessario.
La depressione postparto è un disturbo transitorio, il cui recupero completo è direttamente proporzionale alla tempestività dell’intervento terapeutico.  È fondamentale spiegare come funziona questo fenomeno, rintracciare i fattori scatenanti per ogni caso completo, con lo scopo di rassicurare entrambi i coniugi in merito al fatto che la mamma tornerà presto come era prima.

La psicoterapia si è dimostrata essere il trattamento più efficace nonchè l’opzione preferita dalle mamme che soffrono di depressione postparto, soprattutto per quelle che vogliono allattare il proprio bebè, poichè costituisce una valida alternativa all’assunzione di psicofarmaci.
In questi casi si parla di terapia interpersonale: si tratta di una psicoterapia centrata in questi casi nei problemi legati al postpato, quali la relazione con il bambino, il rapporto di coppia, l’adattamento al nuovo ruolo o il ritorno al lavoro.  Quest’approccio terapeutico si è dimostrato utile sia in modalità individuale, che di coppia o di gruppo.

La terapia di gruppo, nello specifico,  presenta alcunio vantaggi:
  • Riduzione dell’isolamento delle madri 
  • Informazione e psicoeducazione delle madri
  • Permette alle madri di centrare l’attenzione in sè stesse e nelle proprie necessità basiche, come prendersi cura di sè stesse, mangiare, dormire, ecc.
  • Suppone un sostegno alla terapia individuale
  • Apporta speranza nel futura
     (Articolo di Sonja Sampaolesi)
(

viernes, 13 de abril de 2012

Il Coraggio di cambiare


Questo articolo è dedicato a tutti i miei pazienti e in generale a tutte le persone che cercano di trovare coraggio laddove credevano non ce ne fosse più. È dedicato a coloro che s’imbarcano in un processo di cambiamento che spesso per molti assume l’aspetto di un’avventura intrisa di misteri e timori. Nonostante ciò, queste persone riescono a trovare il valore di prendersi le responsabilità sul proprio passato, ma soprattutto sul proprio futuro.
Generalmente le cose non sono così semplici, almeno da un punto di vista terapeutico. Chi approda, a volte smarrito e a volte diffidente, dallo psicologo non lo fa con la piena coscienza di volere/dovere cambiare. In molti credono che lo psicologo, come per magia, possa far scomparire i problemi che ci causano un malessere o farci cambiare. Ma il pensare che un terapeuta ci voglia far cambiare è il primo di una lunga serie di concetti sbagliati, dovuti alla poca conoscenza di cosa è un percorso terapeutico.
Il primo passo del terapeuta è quindi quello di far comprendere al paziente che non avverrà (o egli non compirà) nessun “miracolo”, ma piuttosto si inizierà un cammino nel quale si lavorerà insieme.
Una delle necessità più frequenti è quella di aiutare la persona ad interpretare ciò che gli sta succedendo, spesso cercando di andare oltre i sintomi. È facile che se abbiamo un mal di denti ci recheremo subito dal dentista o se ci fa male una gamba andremo immediatamente dall’ortopedico. Più difficile è che al primo segnale di un malessere psichico ci si rechi dallo psicologo. Spesso ci si arriva dopo una convivenza più o meno lunga con il nostro “problema” e a volte ci viene in soccorso, accelerando i tempi, proprio quella che riteniamo la nostra peggiore nemica: la psiche. Essa infatti, quando si vede costretta a farlo, decide di trasmetterci il suo messaggio attraverso il corpo: sa che a lui lo ascolteremo!
Ecco perchè la maggior parte delle persone che arrivano allo studio di uno psicologo lo fanno spinte da sintomi fisici (dei quali loro stessi sospettano la componente psicosomatica) o disturbi d’ansia e attacchi di panico. Il corpo ci chiede di fermarci e di riflettere e la paura ci spienge a chiederci di cosa abbiamo realmente timore.
La nostra psiche è capricciosa e saggia come un bambino: se non la ascoltiamo con le buone inizierà a strillare e se necessario a gettare o rompere qualcosa, fino a che non le presteremo attenzione.

Una volta riconosciuto e interpretato il messaggio che noi stessi, in modo distrorto, ci siamo inviati, inizia il vero e proprio cammino verso il cambiamento. Spesso questo cammino richiede una prima ed importante presa di coscienza: quella di voler cambiare. Per i più non è affatto una cosa facile e noi psicologi, che sappiamo quanto sia complicato sia il deciderlo che il metterlo in pratica, abbiamo il dovere di stare vicini più che mai al nostro paziente per incoraggiarlo.
Dovremo avvisarlo del fatto che ci saranno momenti difficili e dolorosi, ma che lo accompagneremo in ogni tappa di questo processo e lo aiuteremo ad affrontare tutte le piccole e grandi difficoltà che sorgeranno e celebreremo insieme ogni piccolo grande passo in avanti.
L’ostacolo maggiore al cambiamento è che questo suscita nell’individuo una serie di emozioni vissute come una minaccia:
       Paura di soffrire: spesso si fa confusione e si percepisce come minaccioso qualcosa che non lo è, come ad esempio la tristezza, la rabbia, la delusione, ecc. In realtà non ci sono emozioni positive e negative, ma solo emozioni gradevoli e sgradevoli. A volte queste ultime, anche se tali, posso risultarci utili e funzionali a raggiungere i nostri obiettivi.  In molti casi, in terapia si affrontano situazioni difficili e spiacevoli che rendono questo percorso duro. Non è un cammino facile ma a volte il nostro benessere passa per momenti dolorosi e solo così si possono superare certi aspetti che influiscono negativamente nella  nostra vita. 
       Senso di insicurezza: ogni cambiamento rappresenta un piccolo lutto, una separazione con una parte di noi stessi che non ci è più funzionale. Nonostante ciò, è sempre difficile metter da parte quelle che fino ad allora abbiamo considerato le nostre risorse (seppur sbagliate) e trovarne di nuove. C’è sempre un momento in cui ci si trova in una fase intermedia nella quale ci togliamo di dosso l’”abito” che abbiamo indossato per tutta una vita e la ricerca e costruzione di un “abito” nuovo da indossare ci fa sentire, nel frattempo, nudi.
       Paura di ciò che è sconosciuto: valga il detto “chi lascia la via vecchia per quella nuova, sa cosa lascia ma non sa cosa trova” e, anche se la via vecchia è quella che ci ha portato spesso dove non volevamo... è l’unica che conosciamo. L’idea di non avere più una rotta con dei passi precisi ci destabilizza e a volte ci blocca. Inoltre, molti dei miei pazienti mi riferiscono una gran paura di come gli altri reagiranno di fronte al loro cambiamento. Se un cambiamento nella nostra persona e nei nostri comportamenti spaventa noi per primi, è assolutamente comprensibile che gli altri si possano sentir spiazzati davanti a una persona in un certo senso nuova.


 Questo spiega il blocco che sperimentano molte persone, ad esempio, per timore che il loro partner non le accetterà/amerà più, o che un amico dominante non vorrà più continuare a frequentarle se iniziano ad essere più assertive, o la paura che il capo che fino ad allora le aveva sottomesse e sfruttate possa licenziarle per il fatto di “alzare la testa”. Nella maggior parte dei casi è un cambiamento verso l’assertività (avere il coraggio di esprimere le proprie idee senza paura del giudizio e saper dire di no, in generale far valere i nostri diritti) che scatena le maggiori paure. È abbastanza lecito pensare che, se fino ad allora una persona ci è stata accanto per la nostra “disponibilità” (in realtà passività), al vederci nella nostra nuova “veste” possiamo non piacergli più. In questo caso si apre un’altra parentesi: ci interessa davvero che questa persona continui a starci accanto in quel modo? In altri casi invece bisognerà imparare ad aver fiducia nelle risorse degli altri, nell’accettare e adeguarsi ad un cambiamento. Dobbiamo tener presente che ogni gruppo o nucleo sociale (amici, famiglia, coppia) è dotato di una specie di autoregolazione che permette la stabilità e l’adattamento ai cambiamenti, tale per cui ad un cambiamento introdotto da uno dei componenti di questo “sistema” seguirà un cambiamento dell’altro o altri componenti. 
       Paura di eventuali conseguenze catastrofiche: spesso si pensa che un cambiamento nella nostra persona o nella nostra vita porti ad una rivoluzione totale di esse, cosa che viene percepita come catastrofica e minacciosa. Paradossalmente si arriva a pensare che, piuttosto che armarsi di coraggio e cambiare qualcosa, sia più facile cambiare e stravolgere direttamente tutto.  Ricordo una paziente che aveva dei pensieri ricorrenti: si chiedeva ossessivamente se in lei c’era una parte violenta che voleva venir fuori, una parte che avrebbe potuto aggredire fino ad uccidere qualcuno. Arrivammo alla conclusione che in realtà era in una fase di blocco: non riusciva ad avanzare perchè non accettava il suo bisogno di cambiare, lo respingeva perchè aveva paura che cambiare volesse dire recidere tutti i vincoli stabiliti fino ad allora. È come se si pensasse “se voglio essere una persona nuova, nuovo deve essere anche il mio mondo e devo uccidere quello vecchio”. Apprese che non c’è affatto bisogno di uccidere niente e nessuno per cambiare, piuttosto rinnovarsi e rinnovare il modo in cui ci rapportiamo con gli altri e che, se proprio vogliamo che qualcuno non faccia più parte della nostra vita... avrà anch’essa modo di elaborare il suo lutto.

Uno dei compiti del terapeuta è quello di aiutare il paziente ad individuare tutti i vizi mentali e verbali che li intrappolano in un’etichetta che rappresenta un ostacolo al cambiamento. Esempi: “Io sono sempre stata paziente”; “Ho sempre avuto uomini così”; “Non ho mai saputo dire di no”; “Quando parlo la gente non mi ascolta mai”, ecc. Pensare in termini assoluti di sempre e mai ci impedisce qualsiasi possibiltà alternativa, blocca già in partenza qualsiasi accenno di sperimentazione, anche fosse quella di provare ad immaginarci in modo diverso.
In molti casi, la persona pensa che voler cambiare implica l’ammettere di essere “sbagliati”. In realtà si tratta di un discorso ben più pratico che non deve sfociare in sensi di colpa. Semplicemente se qualcosa fino ad ora non ha funzionato, bisogna introdurre un cambiamento perchè funzioni in modo diverso. A tal fine, è fondamentale stabilire degli obiettivi e dei passi a seguire, con un ordine di propedeuticità o piuttosto di facilità. Non possiamo fare una torta se prima non compriamo e organizziamo gli ingredienti, così come non possiamo imparare ad essere degli scalatori iniziando direttamente con l’Everest.

Uno dei compiti dello psicologo è anche quello di aiutare il paziente ad ordinare in modo realistico e costruttivo questa lista di passi: è di fondamentale importanza che si parta da “compiti” che non provochino frustrazione, ma piuttosto senso di soddisfazione. Non c’è niente di meglio per qualsiasi impresa che una buona dose di autostima.
Durante questo processo la persona avrà anche l’opportunità di scoprire quali sono le sue nuove risorse, quelle da mettere nello zaino che la accompagnerà nella scalata verso la conquista dell’Everest. Per tale ragione, oltre a stabilire degli obiettivi ed esplorare le paure e desideri del paziente e individuare le vecchie risorse da lasciare a casa, lo psicologo lo aiuterà anche a scoprire quelle nuove con esercizi pratici.
Per concludere, oltre a tutto ciò che concerne la parte attiva del paziente (la riflessione, lo svolgere gli esercizi, la presa di coscienza e la revisione dei processi terapeutici), altri aspetti molto importanti sono quelli strettamente connessi alla figura del terapeuta. Nello specifico, la terapia avrà successo e favorirà i cambiamenti desiderati dal paziente se, oltre alla motivazione che egli ci metterà, si sentirà compreso dal suo terapeuta, sentirà che è un tipo di ascolto attivo, sentirà che può esprimersi liberamente e che la terapia lo aiuta ad esplorare possibilità di interpretazioni alternative.

(Articolo di Sonja Sampaolesi)